Perché in Italia gli stipendi sono così bassi?

Il valore medio dello stipendio di un lavoratore è calato del 3%: perché l'Italia non riesce a superare la stagnazione?

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perché in Italia gli stipendi sono così bassi
  • I datori di lavoro percepiscono gli stipendi come un onere economico piuttosto che un investimento strategico, tendendo a minimizzare i costi del lavoro, il che scoraggia i talenti qualificati e limita la motivazione e la produttività dei lavoratori.
  • Le piccole e medie imprese italiane, che rappresentano la maggior parte del tessuto economico del paese, spesso non riescono a offrire salari competitivi a causa delle loro limitate risorse finanziarie.
  • La Pubblica Amministrazione italiana, con le sue inefficienze e complessità burocratiche, aumenta i costi operativi delle imprese e limita la loro flessibilità e capacità di crescita, contribuendo così indirettamente a mantenere bassi i salari e a limitare l’attrattività del mercato del lavoro italiano.

Perché gli stipendi in Italia sono inferiori rispetto ad altri paesi europei? Gli ultimi dati OCSE relativi ai primi tre mesi del 2024 registrano un calo del -6,9% nello stipendio medio di un lavoratore rispetto allo stesso periodo del 2019, ovvero quello del pre-pandemia.

Un dato solo apparentemente fisiologico, poiché sebbene altri paesi del blocco occidentale europeo come la Francia e il Regno Unito abbiano effettivamente riscontrato la stessa problematica, l’Italia mostra comunque i risultati peggiori.

La discrepanza salariale tra l’Italia e il blocco occidentale UE non è tuttavia un fenomeno recente. Da decenni, lavoratori – ma soprattutto lavoratrici – italiani lamentano stipendi rimasti sostanzialmente invariati o addirittura a ribasso, nonostante l’incremento del costo della vita.

Uno scenario decisamente singolare, soprattutto se paragonato alla situazione dei paesi UE, dove gli stipendi sono invece aumentati in media del 32,5% a fronte di un incremento del solo 1% nel nostro paese. Quali sono le cause di questo marcato divario e come può essere colmato?

Il motivo dei bassi stipendi dipende da due fattori: nanismo delle aziende e scarsa produttività dei lavoratori.

Giovanni Emmi

Il lavoratore è visto come un costo e non una risorsa

Una delle prime cause individuabili del fenomeno è la percezione dello stipendio dei lavoratori come mero onere economico per i datori di lavoro, piuttosto che un investimento strategico.

Un atteggiamento ormai radicato, che si manifesta in una tendenza diffusa a minimizzare i costi del lavoro, tentando spesso di comprimere gli stipendi al minimo possibile, piuttosto che riconoscere il valore del capitale umano come una risorsa fondamentale per l’innovazione e la competitività aziendale.

La logica che considera lo stipendio un semplice costo porta però a diverse conseguenze deleterie. In primo luogo, l’adozione di politiche retributive al ribasso rende il mercato del lavoro italiano meno attraente per i talenti, sia nazionali che internazionali.

I lavoratori altamente qualificati sono quindi incentivati a cercare opportunità migliori all’estero, dove le retribuzioni sono più competitive e dove è maggiormente riconosciuta l’importanza del contributo individuale al successo aziendale.

Fuggire o accontentarsi?

Tra il 2012 e il 2021, l’ISTAT stima che quasi un milione di italiani, di età compresa tra i 20 e i 34 anni, abbiano lasciato il paese per trasferirsi all’estero, un fenomeno tristemente noto come “fuga dei cervelli, o “brain drain“.

Chi rimane a confrontarsi con stipendi sempre più bassi riscontra, naturalmente, un basso livello di motivazione e soddisfazione lavorativa. Quando i dipendenti percepiscono di non essere adeguatamente valorizzati, la loro produttività tende infatti a diminuire.

La mancanza di incentivi economici adeguati riduce l’engagement e l’entusiasmo nel lavoro quotidiano, portando a una diminuzione complessiva della qualità del prodotto o servizio offerto in un circolo vizioso che penalizza sia la singola impresa e si ripercuote negativamente sull’intera economia nazionale.

Stipendi bassi attribuibili alla prevalenza di PMI

A giocare un ruolo chiave sulla competitività dei salari italiani rispetto agli altri paesi europei è tuttavia anche la dimensione media delle imprese nel nostro paese. Il peculiare tessuto economico italiano, caratterizzato da una predominanza di piccole e medie imprese (PMI) ha un impatto infatti non trascurabile sulla dinamica stipendiale nel paese.

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Dai rilevamenti dell’ISTAT, nel 2019, la maggior parte delle aziende nei settori industriali e dei servizi di mercato apparteneva alla categoria delle microimprese, ovvero quelle con meno di dieci dipendenti. Quasi 4 milioni di queste microimprese costituivano il 94,8% del totale delle imprese attive.

In un circolo vizioso apparentemente inarrestabile, tutti quei dipendenti stufi di sottostare ad offerte salariali inadeguate avviano le proprie iniziative imprenditoriali rimanendo sul piccolo, con una struttura organizzativa meno complessa e risorse finanziarie più limitate rispetto alle grandi imprese.

Limitatezza di risorse che naturalmente incide direttamente sulla capacità delle PMI di offrire retribuzioni elevate. Le grandi aziende, meno prevalenti, di cui molte straniere, hanno invece bilanci più robusti e una maggiore capacità di generare profitti su larga scala, e possono permettersi invece di attrarre e trattenere talenti offrendo stipendi competitivi e benefit aggiuntivi.

Al contrario, le PMI devono spesso operare in un contesto di margini di profitto ristretti, il che le obbliga a contenere i costi, inclusi quelli del personale. Inoltre, le PMI italiane operano frequentemente in settori tradizionali come il manifatturiero, l’artigianato e il commercio al dettaglio, dove la concorrenza è intensa e la pressione sui prezzi è elevata.

Poca innovazione, produttività stagnante

Uno scenario che costringe le aziende a mantenere una struttura dei costi agile, penalizzando ulteriormente i salari. In settori ad alta intensità di lavoro manuale, l’automazione e l’innovazione tecnologica, che potrebbero aumentare la produttività e quindi gli stipendi, sono inoltre spesso implementate a un ritmo più lento rispetto alle grandi imprese.

La carenza di investimenti in ricerca e sviluppo nelle PMI limita a sua volta la loro capacità di migliorare l’efficienza operativa e incrementare la produttività, due fattori chiave per la crescita salariale.

Minore forza contrattuale su rapporti brevi

La frammentazione del tessuto industriale italiano comporta fisiologicamente anche una minore forza contrattuale collettiva. Nei contesti aziendali più grandi, i sindacati hanno la possibilità di negoziare condizioni stipendiali più favorevoli grazie alla maggiore massa critica dei lavoratori.

Nelle PMI, invece, la frammentazione dei dipendenti in una miriade di piccole unità lavorative disperde questa forza contrattuale, rendendo più difficile ottenere incrementi retributivi rilevanti, specialmente in un ambiente dove sono prevalenti rapporti di lavoro informali e contratti a tempo determinato.

I rallentamenti della Pubblica Amministrazione

Un discorso vecchio come il mondo, quello della burocrazia. Nonostante gli interventi PNRR per la digitalizzazione e la semplificazione delle pratiche, la Pubblica Amministrazione italiana, con le sue intrinseche inefficienze burocratiche, ha un impatto indiretto sui salari dei lavoratori. In che modo?

Innanzitutto, un’elevata complessità amministrativa comporta un incremento dei costi operativi per le imprese: le aziende sono spesso costrette a dedicare risorse umane e finanziarie specifiche per adempiere agli obblighi burocratici. Costi non trascurabili, che si traducono in una riduzione delle risorse disponibili per altre attività produttive, tra cui l’investimento in capitale umano.

Ma non si parla solo di costi vivi. La necessità di conformarsi a regolamentazioni complesse e talvolta ridondanti contribuisce a rallentare i processi decisionali e limitare la flessibilità delle imprese, impedendo loro di rispondere rapidamente alle opportunità di mercato e di implementare nuove tecnologie o modelli di business che potrebbero incrementare la produttività.

Una produttività stagnante o in calo è a sua volta spesso associata a stipendi stagnanti, poiché i guadagni derivanti da aumenti di produttività rappresentano una delle principali fonti di crescita salariale nel lungo termine.

Altro aspetto critico è rappresentato dall’incertezza e dall’imprevedibilità che una complessa pubblica amministrazione può generare. Ritardi nella concessione di permessi, nella risoluzione di controversie o nell’accesso a incentivi e finanziamenti pubblici possono indurre le aziende a adottare una gestione più prudente delle risorse finanziarie, incluso il contenimento dei costi del lavoro.

Va inoltre considerato l’effetto della complessità amministrativa sull’attrattività di un Paese per gli investimenti esteri. Un ambiente burocraticamente oneroso può disincentivare gli investitori stranieri, i quali potrebbero preferire mercati più snelli e con regolamentazioni più chiare e prevedibili.

Anche qui, la mancanza di investimenti esteri limita le opportunità di crescita economica e di creazione di posti di lavoro ben remunerati. Il che dà vita alla “giungla” del job search, dove centinaia di lavoratori – anche qualificati – si trovano a competere in maniera spietata per un singolo posto di lavoro. E qui il cerchio si chiude: se i posti di lavoro diminuiscono, i candidati saranno costretti ad accettare continue pressioni a ribasso sui salari.

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Francesca Di Feo

Redattrice Partitaiva.it

Classe 1994, immediatamente dopo gli studi ho scelto di intraprendere una carriera nel Project Management in ambito di progetti Erasmus+ per EPS. Questo mi ha portato ad approfondire in particolare le tematiche inerenti alla fiscalità delle PMI, anche se la mia area di expertise risulta oggi molto più ampia in questo ambito. Oggi sono copywriter freelance appassionata di scrittura e di innovazione per le piccole e medie imprese.

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